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Manager e management ai tempi del post Covid -19

Pubblicato il 30 Aprile 2020 Tempo di lettura: 5.1 min

Per fortuna, di tanto in tanto la professione manageriale, così incline a diventare supponente quando vince qualche battaglia, e i seriosi studi di management vengono scossi da qualche provocazione che ridimensiona le ambizioni, che costringe a pensare, che obbliga a fare i conti con la realtà che sfugge alla catalogazione, ai modelli, alla pretesa ‘scientifica’ di imbrigliarla o alla volontà autoritaria di dominarla”.  Così scriveva, nel 1998,  Claudio Demattè[1]. Tolto il “per fortuna”, il ragionamento non fa una grinza e la “provocazione Covid” impone di percorrere la strada saggiamente tracciata dal professore-manager più di vent’anni or sono: fare i conti con la realtà.

Sul ruolo dei manager nell’era del post Covid si sta discutendo intensamente, ed è giusto così. Di buon management ce ne sarà bisogno (in verità, non è che in passato non ce ne fosse) e il confronto è una grande ricchezza. L’iconografia anglosassone ci mette del suo (la coronavirus-driven disruption che indurrà la sostituzione del just in time con il just in case, solo per fare un esempio!) ma quel che conta è la sostanza:   attività della catena del valore da ristrutturare, risorse e competenze da sviluppare ex novo, value proposition  da inventare, partnership da ripensare nei modi e nei luoghi… senza perdere di vista una dimensione fondamentale del “mestiere di dirigere”: la leadership.

Ipotizziamo un deus ex machina che incorpori doti di  decision making in condizioni di incertezza/instabilità, orientamento al rischio e all’apprendimento, abilità di manovra degli obiettivi, competenze up-to-date,   capacità di data management, resistenza allo stress e alla fatica… e chi più ne ha, più ne metta.   Quandanche esista, il Faust del management non potrà prescindere da un contesto organizzativo da mobilitare e da un ambiente istituzionale con cui interagire.

Marchionne diceva che “un grande leader è capace di guidare il cambiamento, indicare la direzione generale, fissare degli obiettivi, incredibilmente audaci, circondarsi delle persone migliori che si possano trovare, e farle lavorare[2]. Nei fatti, come si declinerà nei prossimi mesi il “si circonda? E il “farle lavorare?”. Si tratterà di sostituire dei collaboratori? Di investire in formazione? Di metter mano ad assetti organizzativi,  sistemi operativi, soluzioni di welfare, progetti di counseling ….?

Le parole vanno pesate, tanto più in questa fase storica. Ciò premesso, gli scenari occupazionali in cui siamo immersi non sono rosei, quantomeno nel breve. Serviranno leader carismatici, allenati a stare con le persone, a toccare le corde motivazionali, a contrastare le resistenze al cambiamento.  A chiamare pane il pane e vino il vino, a generare fiducia e consenso attorno a ciò che veramente conta: il bene dell’azienda e dell’istituzione. Sfide di non poco conto, in un Paese in cui le posizioni di rendita e i meccanismi di difesa, i nepotismi e i poltronifici mettono all’angolo la meritocrazia non appena si presenta l’occasione. Cioè  spesso.

E poi c’è l’ambiente istituzionale, con una molteplicità di stakeholders con cui interagire. In primis, la  proprietà, partendo dal presupposto che il gioco “contributi attesi-ricompense offerte” non potrà certo essere quello del passato. Subito dopo, l’ecosistema: banche, sindacati, rappresentanza, enti territoriali, policy makers… Un esempio su tutti: i rapporti con la pubblica amministrazione. Dario Di Vico,  sul Corriere della Sera del 26 aprile 2020, titolava “Quei soldi in ritardo”, commentando: “E’ un’amara verità ma va detta: il trasferimento di liquidità dallo Stato alle imprese non sta funzionando come auspicato”.

Max Weber, più di un secolo fa,  scriveva che “ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni”. In Italia, ormai da decenni, imprenditori e manager disegnano i processi in funzione dei vincoli burocratici prima che delle opportunità di business, che è tutto dire.  La speranza è l’ultima a morire ma temo che il manager del dopo Covid dovrà fare i conti, ancor più che in passato, con la burocrazia.

In sintesi. La sfida che attende i manager è quella di una trasformazione profonda del “lavoro di gestione” e delle sue fondamenta, quelle fondamenta che Demattè identificava nella tecnica, nella progettualità e nell’arte politica. Competenze e strumenti tecnici, contenuti e  modelli progettuali rimarranno fondamentali ma i processi interni ed esterni non saranno da meno, nella consapevolezza che nel managementuna quantità infinita di scelte e di azioni devono essere prese sulla base di elementi che non si prestano a elaborazioni scientifiche. Richiedono piuttosto valutazioni puntuali o d’insieme di natura altamente qualitativa per la quale ci vuole sensibilità, equilibrio, saggezza e capacità di soppesare azioni e reazioni complesse[3].

La pandemia e la crisi che ne sta derivando sollecitano i manager a promuovere una new age che punti a superare le inerzie, a rimuovere la mediocrità  e a premiare  il merito. A  dare spazio ai giovani di valore.  Ad esprimere quello che Marchionne chiamava “Il coraggio di cambiare”. A tema c’è una ineludibile  assunzione di responsabilità nei confronti delle imprese, ma c’è anche un contributo dal grande valore simbolico per le istituzioni e per l’intera società civile.

Federico Visconti 

Rettore LIUC – Università Cattaneo
Direttore del Centro su Strategic Management e Family Business

Blog Contract Manager 

 

[1] In Economia e Management, n. 1, 1998

[2] “Sergio Marchionne. Il coraggio di cambiare. Tre lezioni sulla leadership e la crescita”, a cura di Alberto Grando, Egea Rizzoli, 2019

[3] C. Demattè, “Il mestiere di dirigere – Ripensare compiti e responsabilità del Management”, Etas, 2004, p. 96