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Good Boss vs Bad Boss: una ricerca sui comportamenti del capo efficace

Pubblicato il 26 Novembre 2018 Tempo di lettura: 3.3 min

Consiglieresti ad altri il tuo capo come una persona con cui lavorare?  L’80% delle oltre 600 persone intervistate nella ricerca “Good Boss vs Bad boss” della LIUC Business School risponde di no. La ricerca, avviata nel 2017 e presentata nel corso di un convegno lo scorso 23 novembre, è frutto di un’indagine realizzata dal Centro sul Cambiamento, la Leadership e il People Management della LIUC Business School.

Un dato, quello dell’80%, a cui si è arrivati sommando i cosiddetti “detrattori” (particolarmente critici rispetto al proprio capo) e i “neutrali”. Sono definiti “promotori”, invece, solo il 26,09%, per un Net Management Promoter Score (un indice basato su studi dell’Università di Harvard, poi elaborati da Julian Birkinshaw della London Business School) pari a -13,22. Il campione degli oltre 600 intervistati comprende persone impiegate in svariati settori, ma il più rappresentato è l’industria.

Le informazioni sono state raccolte attraverso un questionario online che – in forma anonima – prende in considerazione inquadramento, età, esperienza lavorativa e settore di afferenza. Da qui, la domanda che rappresenta il cuore della ricerca (“Quanto è probabile che lei raccomandi il suo capo a dei colleghi/amici come qualcuno con cui lavorare?”) con una votazione da 1 a 10 e un focus sui comportamenti che portano a consigliare il proprio capo e su quelli che portano a non consigliarlo.

“Tra i primi – spiega il prof. Vittorio D’Amato, Direttore del Centro sul Cambiamento, la Leadership e il People Management della LIUC Business School – il più votato è la capacità di lasciare ai collaboratori un ampio grado di libertà nel modo in cui si conseguono i risultati (lo ha segnalato il 54,76% degli intervistati). Subito dopo, la disponibilità ad ascoltarli per un confronto e ad accogliere le loro opinioni. Emerge dunque un trend che è tipico dei cosiddetti millennials, più orientati rispetto alle generazioni precedenti a una gestione autonoma del lavoro, in cui a contare sono i risultati e non le modalità operative. Dati che ci parlano dunque di smartworking, di flessibilità nei tempi e nei luoghi di lavoro e anche di conciliazione tra vita e professione. Senza perdere, però, in produttività ma al contrario agevolando il raggiungimento di nuovi successi, anche grazie all’aiuto della tecnologia”.

Guardando invece ai comportamenti che portano a non consigliare il proprio capo, in testa c’è la mancata definizione di ruoli e responsabilità (indicata dal 33,38% degli intervistati): “Si tratta di un comportamento indicato come il meno rilevante in assoluto tra quelli che portano a consigliare il capo. Un paradosso solo apparente, dato che si tratta di un bisogno primario, dato per scontato. Non stupisce quindi di trovare in fondo a questa “classifica” dei fattori che non demotivano, il non lasciare ampia libertà ai collaboratori. La conferma che i fattori motivanti possono essere – come in questo caso – anche fattori che non demotivano”.

I risultati sono stati discussi nel corso del convegno in una tavola rotonda moderata dalla giornalista Francesca Barbieri de Il Sole 24 Ore, in cui si sono confrontati Giorgio Ferrandino (AD SEW Eurodrive), Alessandro Bossi (Direttore Hays), Paolo Cederle (Italian Executive Chairman and Country Manager e Country Manager Everis) e Simona Erba (Talent Acquisition Manager Robert Bosch Italy).

La ricerca sarà comunque solo un punto di partenza:I risultati – spiega D’Amato – ci confermano una tendenza a livello internazionale: nel 2017, infatti, l’87% dei collaboratori si dichiarava disengaged (ricerca Gallup). Dati sui quali vogliamo invitare i manager a riflettere. In estrema sintesi, il monito può essere: il modo col quale tratterete i vostri collaboratori sarà lo stesso con cui loro tratteranno i vostri clienti”.